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Periodicamente torna alla mente la preziosa osservazione di Enzo Mari raccolta in una conversazione di qualche anno fa.

In quell’occasione passando in rassegna in un percorso a ritroso quale fosse stato il contributo dei vari imprenditori alla fortuna del design italiano, Mari mi faceva notare col suo radicale piglio come non fosse vero che gli oggetti italiani fossero industriali ma come fossero sempre stati “pensati come industriali, ma prodotti artigianalmente”.

Questa sottile e demistificatoria intuizione veniva a galla dopo che per troppo tempo si era steso un velo di Maya, si era calcata la mano su una realtà industriale tutta visibile in apparenza, un’illusione che velava la realtà delle cose che stava invece ben nascosta da tutt’altra parte.

 

Per decenni si era voluto tacitare l’artigianato e lo si era fatto liquidandolo prima di tutto come un problema di meri numeri: se si trattava di grande o media serie si stava nell’industria, se di piccola serie ci si riferiva alla dimensione artigianale. Era evidente che utilizzando questo parametro l’artigianato usciva polverizzato e largamente sconfitto come una dimensione del tutto superata e fuori dal tempo mentre la serie, la larga serie e le quantità avrebbero finalmente aperto a più larghi mercati.

Ma nessuno nel frattempo aveva interesse a smontare la macchina della produzione e ad andare a radiografare cosa accadeva in Italia nei passaggi intermedi del prodotto per verificare quanto venisse effettivamente eseguito dalla macchina e quanto fosse il contributo di continuo adattamento e rifinitura qualitativa compiuti da un operaio specializzato (o artigiano moderno). Piuttosto il mondo del design preferiva parlare di progetto, di cultura del progetto e dei suoi protagonisti/designer concentrandosi sul livello high della disciplina e sul contributo culturale che questa apportava alla società italiana. In parallelo tratti artigianali di qualità continuavano a svolgere la loro funzione imprescindibile nel prodotto e a rendere possibili tutte le più estreme richieste e forzature volute dai vari progettisti sotto la tenda protettiva di una logica cosiddetta “industriale”.

 

Tutto questo avrebbe preso una diversa piega con il giro di boa del XXI secolo. Nel mondo diventato globale con la presenza di nuovi attori e di palcoscenici emergenti la cultura industriale diventava un fatto oramai universalmente disponibile, semplificata e appiattita nei suoi aspetti tecnologici che ora apparivano a portata di mano per tutte le latitudini del pianeta. Allo stesso modo la cultura dei designer in un mondo super-saturo e privo di vere richieste funzionali (o almeno dove l’offerta di proposte progettuali superava la domanda) si assestava su di un progetto debole in cui l’innovazione era fatta di continui ma piccolissimi scarti in avanti. L’uno e l’altro di questi fenomeni aprivano al design un’autostrada per la semplificazione ma allo stesso tempo portavano ad un prodotto diffuso dalla preoccupante omogeneità. Ciò che invece sembrava sottrarsi a tutto questo era il substrato artigianale di qualità che permaneva nella lavorazione industriale. Lì la differenza l’avrebbe potuta continuare a fare soprattutto lui, l’artigiano, col suo apporto di ricette ancora semi-nascoste e di sprazzi di manualità che ora tornavano in gioco come fattore di differenza e come antica eredità mai rivelata. Quando poi per alcuni prodotti il venduto industriale di alcune aziende nel primo decennio del nuovo secolo si sarebbe assottigliato al punto da stare nel novero delle decine o delle dozzine, anche l’alibi dei numeri si sarebbe ridimensionato e il ruolo dell’artigiano si sarebbe trovato completamente ristabilito all’onor del mondo.

Ecco l’argomento attorno a cui ruotare: chi fa allora oggi la ricerca? chi si occupa della complessità?

I mega-marchi nati col nuovo secolo hanno avuto altro a cui pensare e se si sono costituiti è perché volevano mettere ordine nella complessa voce “distribuzione” del design, su quel 40 o 50% che con l’aprirsi del mercato globale creava particolari problemi o altrettante occasioni . Non si sono certo accorpati con il fine di fare della ricerca product-oriented. L’economia di scala esigeva che identità e razionalizzazione costituissero il tema centrale dei nuovi assetti, ma il tipo di prodotto che veniva fuori dalla concentrazione dei marchi era inevitabilmente qualcosa che aveva il sapore del contract: per grandi forniture quindi, né bello né brutto, merceologicamente corretto sì, ma anche sufficientemente piatto per non creare imponderabili salti imponendosi così attraverso una sorta di “indeterminato di qualità”.

 

Per sfuggire a tutto questo l’artigianato era l’unico in grado di proporre ancora qualità e unicità col suo modo semplice e flessibile e di fare il just in time a costi relativamente bassi. Lì ci sarebbe stato lo spazio anche per l’errore o per il progetto che non sempre va a buon fine sostenibile però nella fase della sperimentazione senza eccessivi investimenti in una situazione di mercato che negli ultimi dieci anni appariva già abbastanza delicata.

L’artigiano era l’unico in grado di accettare certe scommesse scriteriate che potevano venire dagli angoli più remoti dei paesi emergenti e di realizzarle una prima volta per poi magari ripeterle poco dopo con una minima richiesta di variazione. Oppure di operare nella sfera del pezzo unico e del capitolo del “su misura” dove prototipo e produzione coincidevano nell’esemplare a tiratura 1 il più delle volte con un alto grado di complessità. In questo il nostro paese dimostrava di essere estremamente moderno e del tutto in linea con l’osservazione di Luigi Pasinetti che indicava come “la ricchezza di una nazione industriale è qualcosa di completamente diverso da quella delle nazioni pre-industriali, o piuttosto è qualcosa di più profondo. Essa non è tanto costituita dalla ricchezza di beni che possiede, quanto dalla conoscenza tecnica di come produrli” (1).

 

Dalla diversa prospettiva della critica d’arte se ne accorgeva, in una fase di grande espansione industriale come la fine degli anni Settanta, anche Pierre Restany che vedeva l’importanza di questo tratto artigianale quando notava come gli italiani fossero riusciti ad essere dei perfetti ebanisti della plastica che avevano saputo riconoscere “l’intelligenza del materiale”. E l’osservazione si sarebbe poi potuta estendere a tutti i nuovi materiali che sarebbero comparsi sulla scena da lì in avanti come se qualsiasi forma di innovazione tecnica potesse venir sempre interpretata “da ebanisti”.

Bastava saper sdoppiare determinati passaggi della produzione perché si compisse accanto a noi, al meglio, questa o quella fase del progetto da agganciare poi a quelle successive di una catena. Una linea di produzione a corrente alternata e segmentata che consentiva però di passare dall’uno all’altro di questi comparti di lavorazione quasi naturalmente. Come in un montaggio cinematografico si riuscivano ad accostare logiche tra loro eterogenee in cui le relazioni e i legami stretti erano costituiti grazie ad un principio di qualità.

Il carotaggio che abbiamo voluto seguire a proposito del design di Foscarini ruota attorno a tre strutture leggere della produzione legate a tre modi di interpretare la materia.

Esse vanno esattamente nella direzione del progetto moderno: si lasciano condurre verso slittamenti progressivi di una materia che si sposta nelle sue modalità di impiego come se nel nuovo secolo acquistasse significati secondi. Intanto non è più la materia ma il materiale e il materiale è una materia già trasformata dalla ri-produzione industriale che ci restituisce un prodotto di seconda derivazione, un prodotto anche ibrido, un prelavorato capace sempre di trasferirsi in qualcos’altro. Nella sua condizione di perenne trasformazione non è più la sua massa ad identificarne la qualità ma le sue possibilità di estensione e di versatilità meglio se declinate nel principio di resistenza+leggerezza+elasticità.

 

Crea, Vetrofond e Faps sono le tre aziende in questione e 7, 47 e 35 il rispettivo numero dei loro addetti ai quali si aggiungono i loro proprietari, uno o due al massimo per azienda. Cemento, vetro e fibra di carbonio i materiali che aprono il capitolo di come nel XXI secolo un nuovo senso del materiale si accompagni ad una necessaria fase di riconversione e di riposizionamento industriale. Non siamo nel 1945 e il tipo di riconversione non è quella della Iso che passa dalle caldaie alle motorette e neppure quella della Piaggio che passa dalle strutture a guscio dei bombardieri allo scooter, ma è comunque una via per riconsiderare il modo di produrre dell’azienda nato dai sovvertimenti di mercato degli ultimi quindici anni.

 

È un cambio di prospettiva pur rimanendo nella propria specificità. Se anche il quadro viene modificato per operare questa trasformazione, il tema dell’artigianato industriale si ripropone attraverso un medesimo tipo di conduttore e di figura classica del design italiano. E’ la stessa figura spuria dell’operaio-artigiano, del padrone-progettista, del produttore-editore a ripresentarsi sulla scena. È il modo italiano di inventare una sorta di solutore di problemi a tutto campo che sta tra tecnica e forma, tra dettaglio e prestazione, tra sottofornitura di qualità e concentrazione di svariate lavorazioni in un’unica persona.

 

Sono figure-perno, centrali per la nostra storia come il Natale Cappellaro operaio della Olivetti prima montatore delle macchine da scrivere MP1 poi progettista delle rivoluzionarie calcolatrici a più operazioni, come l’ingegner Carlo Barassi che parte durante la Seconda Guerra Mondiale dalle protezioni in gommapiuma dei serbatoi dei bombardieri e approda alle nuove sedute in elastomeri prima per l’auto quindi con gli imbottiti domestici dell’Arflex, come l’Enrico Garbarino che si lascia convincere da Ettore Sottsass nell’avventura di produrre superfici “false” in laminato accoppiando ad un foglio di compensato o di truciolare delle resine melamminiche pressate con cui inventa l’Abet Print. Nell’aver puntato l’obiettivo su Crea, Vetrofond e Faps, Foscarini dimostra di credere in questa dimensione.

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Crea è una creatura di Giovanni Piccinelli che nasce come cementista e dopo aver trascorso un periodo di lavoro in Svizzera, patria del calcestruzzo a vista e dei suoi più raffinati trattamenti, apre la propria azienda a Darfo Boario. I manufatti edili e i componenti in calcestruzzo costituiscono il nocciolo produttivo fino alla fine degli anni Novanta quando la crisi dell’edilizia rende problematico il mercato. Piccinelli vorrebbe quasi abbandonare e mettersi a produrre vasi come passatempo ma proprio in quel momento iniziano a presentarsi richieste per produrre lampade ed elementi di arredo per esterni. Con manufatti di piccole dimensioni, pensa, si sarebbero corsi meno pericoli e accetta la sfida. La sua esperienza nel valutare lo scasseramento dei pezzi dallo stampo e i problemi di sottosquadra gli fa superare agevolmente questo sostanziale cambio di scala verso l’oggetto.

 

Allo stesso tempo l’attività sul componente edilizio in calcestruzzo rimane nella tradizione di fondo dell’azienda ma è spostata dalla produzione corrente di soglie, di cordoli o di balaustre alla commessa speciale, al “su misura”. Per Vittorio Moretti e le cantine Petra progettate da Mario Botta a Suvereto giocherà d’azzardo e si proporrà per risolvere il problema complesso di rivestire 200 colonne in acciaio. Le sue 200 guaine costolate in calcestruzzo alte 3,80 m. e pesanti ciascuna 15 quintali realizzate in due pezzi sono un bellissimo esempio di disegno del componente.
Su un progetto apparentemente improponibile come la lampada Aplomb con riflettore in cemento di Lucidi e Pevere inizia il rapporto con Foscarini.

 

Crea si era fin lì appoggiata ad un produttore di stampi dell’area bergamasca ma per questo fornitore un oggetto piccolino e delicato come il cono della lampada Aplomb era considerato soprattutto una seccatura. Quando il fornitore di stampi ha prospettato di andare in pensione Piccinelli ha pensato che avrebbe semplificato di molto le procedure se si fosse impadronito della tecnica per produrre gli stampi e così ha fatto. Era troppo aleatorio dipendere da un fornitore per una fase di progetto e così oggi Piccinelli gli stampi ha imparato a farseli da soli in un capannone dell’azienda dove produce anche quelli in gomma e in silicone. Non è tanto il costo di uno stampo (600/700 euro) quanto la perdita di tempo e la scomodità di non poter seguire la continuità del progetto “in casa”. Essendo un lavoro in progress e dai tempi talvolta lunghi era meglio avere tutto a portata di mano.

E in effetti ci sono volute dalle 200 alle 300 lampade di prova per arrivare alla soluzione finale per la Aplomb.

E oggi mentre all’inizio la lampada lavorava su circa 5 stampi ne vengono impiegati attualmente circa 45. Nella piccola azienda di sette persone la produzione della Aplomb è seguita da tre operai (Vasile, Radu e Mamadou) di cui due sono addetti al getto, uno alla finitura. Gli operai sono coinvolti dal getto in poi, ma sui prototipi non ci mettono mano. Con i figli Ottavio (che segue la produzione) e Carlo (progettista che segue il settore commerciale) è iniziata questa conversione all’oggetto domestico che non è stata semplice. Soprattutto nella fase di sabbiatura ci voleva particolare cura per avere sempre una irregolarità controllata della granulometria e del poro aperto nel cemento del riflettore che gli operai all’inizio non prendevano in considerazione giudicandola come una perdita di tempo.

 

Ottavio ha pensato allora di portarsi a Milano alla Fiera del Mobile i tre operai che seguivano la lampada per far loro capire che questi oggetti erano destinati alla casa e ad un mondo dove la finitura aveva tutt’altro valore.
Prima di passare alla sabbiatura hanno così capito l’importanza di rifinire i bordi della parte stretta e larga del cono a mano col flessibile, operazione necessaria in seguito alle sbavature del getto. Quando il tutto è pronto dopo un passaggio attraverso una finitura di materiale idrorepellente e passato al vaglio del controllo di qualità degli uomini Foscarini viene mandato a Pordenone dove le lampade sono sottoposte ad elettrificazione in un tour di ritorno verso Marcon.

 

Certo Piccinelli si è dovuto abituare ad un altro mondo dove i controlli di qualità che vengono eseguiti circa due volte al mese attraverso precise misurazioni col calibro per il controllo degli spessori del cemento non hanno niente a che vedere con il loro precedente universo dove i ritiri dei componenti edilizi dopo la scasseratura implicavano differenze anche di vari centimetri. Un cemento che ora va verso la miniaturizzazione nel portapenne, nel porta tende, nella rubinetteria che loro producono e di cui seguono perfettamente lo “spostamento”.

Giancarlo Moretti, uno dei due proprietari della Vetrofond, confessa di affrontare tutte le lavorazioni del vetro ma di considerarsi uno specialista della tecnica dello zanfirico, procedimento con cui si scaldano in forno delle piastrine per poi venire attorcigliate e ottenere un motivo a spirale. Da lui a Casale sul Sile però soprattutto “vengono tutti a soffiare”. E in effetti la rinomata Louis Poulsen si serve da Vetrofond tutte le volte che abbandona le sue lamiere metalliche e i suoi globi acrilici per affrontare il vetro nelle plafoniere di Arne Jacobsen o nei riflettori di Verner Panton.

 

Per soffiare e decorare i suoi vetri preferisce guardare verso il Veneto che non verso il territorio germanico/boemo. Il rapporto di Vetrofond con Foscarini dura da anni e nel loro fatturato costituisce un’importante 20%. Le maestranze dei soffiatori sono tutte italiane e la loro formazione avviene su tempi piuttosto lunghi perché ci vogliono almeno cinque anni per formare un soffiatore. Il lavoro viene organizzato in squadre di 3-5 operai che si specializzano sui modelli di uno specifico produttore. Nel caso di Foscarini ci sono due squadre che ne seguono la produzione. In questo caso tutti e cinque i componenti della squadra si scambiano i ruoli tra soffiatura e finitura. Una volta presa con la canna la pea, bolo a forma di pera, la pasta vitrea viene soffiata e adattata allo stampo. Il procedimento rimane artigianale e poco si può fare con le macchine.

 

Nel caso della lampada Rituals di Ludovica e Roberto Palomba ci vogliono circa tre minuti per la fase di soffiatura e circa dieci minuti per la finitura. Per ottenere quel particolare tipo di finitura gessosa in grado però di mettere in risalto una certa irregolarità nella rigatura, la lampada viene nastrata all’esterno e lavorata in modo da evitare la presenza di macchie per ottenere una distribuzione uniforme del bianco. Solo così si riesce ad ottenere un tono caldo simile a quello della carta di riso (come in certe lampade di Isamu Noguchi) che “spiazza” rispetto alla luminescenza tipica del vetro. Altro modo per trasfigurare l’effetto del vetro è quello di ricorrere a colori spenti che cercano di fondersi maggiormente con i toni dell’ambiente.

 

Nella serie di lampade Buds di Rodolfo Dordoni si vuole abbassare l’effetto di lucentezza del vetro ricorrendo ai verdi, ai grigi, ai marroni, colori volutamente freddi che comportano un difficile dosaggio nel raggiungimento del tono delle miscele con aggiunte di minerali con ossidi di ferro. Ogni prova di fusione voluta da Foscarini e la cui ricetta rimane gelosamente custodita, è complicata e comporta per Moretti costi piuttosto elevati se si considerano “circa 100 kg di materiale, il costo del gas, la manodopera e quello della mancata produzione” ma si capisce che anche storcendo il naso è un pungolo lo appassiona.

Crea e Vetrofond producono così un’innovazione nell’utilizzo del materiale che significa soprattutto l’inversione di un effetto tecnico.

Si chiede al cemento di diventare domestico e di perdere la sua connotazione brutalista, si chiede al vetro soffiato di perdere la dimensione flamboyante dell’eccezionale e di mimetizzarsi il più possibile tra i toni dell’arredo di serie. Il risultato è uno spaesamento nella percezione del materiale.

Il terzo caso della Faps si presenta invece come un interessante esempio di apertura su un materiale innovativo ma ancora poco sfruttato e poco addomesticato nell’ambiente domestico come la fibra di carbonio che va di pari passo con una correzione di rotta sul core business dell’azienda un tempo centrato sulla produzione di canne da pesca ad alte prestazioni. Fedele alla logica del composito Faps integra il campo della vetroresina e della fibra di vetro con quello delle nuove fibre di carbonio. Per il suo proprietario, l’ingegner Maurizio Onofri significa aprirsi merceologicamente a tutta una nuova gamma di prodotti di settori diversissimi, da esplorare tutte le volte che si ricerca per un componente prestazione e perdita di peso.

 

Questo significherà che in azienda entreranno rulli per industrie, telai per bicicletta, prodotti nautici come tangoni cilindrici, stecche per le vele e prolunghe di timoni così come permarranno le canne da pesca. Il design che con la fibra di vetro aveva intrattenuto pochissimi rapporti (la sofisticata poltroncina Nena di Richard Sapper per B&B con struttura in vetroresina nel 1986 si rivelò troppo complessa per la produzione) e che si era limitato alle poche esperienze di Alias nel settore delle sedute dovrà trovare nel nuovo materiale composito una sua logica specifica non imitativa dei materiali che l’hanno preceduto.

 

I progetti di lampade che Marc Sadler propone a Foscarini sembrano centrare nella lampada da terra la tipologia esatta per gli sviluppi possibili dell’accoppiamento tra fibre di vetro e fibre di carbonio e coinvolgere Faps nel processo di sperimentazione sull’illuminazione. Faps lavora allora attorno ad un’economia dei legami tra questi due materiali e sulla loro integrazione sinergica: l’uno, la fibra di vetro, che ha caratteristiche di maggior flessibilità; l’altro, la fibra di carbonio, che ha invece maggior rigidità. I segreti del composito stanno nella miscelazione tra il tipo di fibre e il tipo di resina prima che vengano cucinati in forno.

Tress è una lampada costituita attorno alla matrice “tessile” del componente-fettuccia, sovrapponendo cinque strisce di diverso tipo di fettuccia e di diversa larghezza che ne costituiranno il corpo-colonna per poi impiegare alla base e nella parte superiore della schermatura del gruppo luce anche la fibra di carbonio. Mite è un Luminator moderno e la sua sezione conica variabile è il prodotto di lavorazione di una pelle dei nostri tempi. Al banco di laminazione Fausta e Lia stirano il tessuto di fibra di vetro (da loro chiamato pelle) che verrà poi applicato sullo stampo facendolo ben aderire alla calandra.

È un gesto arcaico e casalingo molto delicato che talvolta svolgono anche gli uomini ma che loro eseguono meglio di ogni altro.

In mezzo ad uno scenario di macchine utensili ad alta tecnologia si apre un passaggio di lavorazione che ricorda la sarta che sta vestendo la sposa, un fermo immagine che ci dà però la misura del tempo necessario a questo passaggio di lavorazione. Il lungo filamento nero in fibra di carbonio ne completerà la struttura passando nell’avvolgitore, mentre la versione in giallo sarà appannaggio del filo di kevlar delicato semilavorato più facilmente soggetto a rotture e a scarti (della versione in carbonio se ne venderanno 1500 all’anno, di quella in kevlar circa 50).

 

La dimensione monumentale della fibra di carbonio è invece stata spinta e sperimentata sulla Twiggy lampada a vocazione ambientale il cui stelo costituisce una vera scommessa tecnica. Lo stelo si piega e oscilla e per raggiungere le caratteristiche meccaniche per la curvatura è stata scomposta in due pezzi. Lo sviluppo dell’asta di circa 320 cm comporta lo sdoppiamento dello stelo in un primo elemento più rigido nella parte bassa in fibra di carbonio e di un elemento nella parte alta in fibra di vetro rinforzata a cui si sommano fascette e strisce di rinforzo sulla punta. Qui la lampada è stata sottoposta ad un carico di 9 kg per verificarne la tenuta complessiva e la flessibilità dello stelo attraverso i 150 campioni che sono stati necessari per arrivare a determinare l’asta definitiva. Per i diffusori della Twiggy, si utilizza un tessuto di vetro pigmentato con resina nera il cui accumulo di resina va sapientemente dosato e all’occorrenza pulito all’uscita del forno per creare un moirè senza arrivare ad avere macchie. Un passaggio nella verniciatura che viene eseguita internamente da Faps darà alla lampada la sua veste definitiva con una laccatura dello stelo in nero , bianco-sporco, cremisi, greige o indaco. Grazie alla leggerezza ottenuta attraverso il materiale composito la Twiggy raggiunge i 290 cm di altezza, laddove l’Arco dei Castiglioni si fermava a 250 cm. I pesi delle due lampade danno tutta la misura dei decenni tecnicamente trascorsi: 17 kg è il peso della Twiggy, 64 kg quello dell’Arco.

Questo percorso nelle pieghe dell’artigianato industriale è nuovo e antico allo stesso tempo.

Foscarini si inserisce a distanza di cinquant’anni nello stesso alveo di cultura del prodotto scavato a suo tempo da Azucena o da Danese, due aziende che oggi acquistano storicamente un’importanza ancora maggiore per il percorso controcorrente che hanno intrapreso. Senza mai rincorrere l’idea di produrre in proprio ed in sede questi editori/produttori nati rispettivamente nel 1949 (Azucena) e nel 1957 (Danese), hanno triangolato nei distretti industriali e per poli disseminati quando l’acquisizione e la concentrazione dei mezzi di produzione sembrava l’unico presupposto possibile per sedersi al tavolo del progetto moderno.

Loro invece si intrufolavano tra le maglie dell’industria e dell’artigianato mescolandone le logiche (è nota la richiesta di Bruno Danese ad un produttore di tubi per condutture fognarie di tagliare a 30° il tubo grigio in polipropilene e di costituire un bordino per produrre il gettacarte In Attesa di Enzo Mari).

La ricerca del passaggio di lavorazione che possa essere trasferito nel prodotto di serie è la stessa che interessa Foscarini così come certe lamentazioni dei produttori nei confronti di Foscarini per la meticolosa ricerca di standard qualitativo mi sembrano le stesse per cui si lamentavano gli artigiani dell’industria che producevano per Danese. Con la Danese si faceva una politica degli autori limitatissima e aristocratica, quasi una continua autocoscienza sul progetto (solo Mari, Munari e i due Danese).

 

Con Foscarini si apre ad una politica a moltissime voci dal momento i designer che collaborano al catalogo Foscarini sono circa 33. Questa moltiplicazione di contributi sposta sottilmente l’ago della bilancia dal contenuto del progetto al modo di produrlo come il punto nodale di riconoscibilità dell’azienda. Oggi le operazioni di successo come ricorda Andrea Branzi “possono avvenire solo attraverso l’organizzazione di apparati provvisori”, apparati temporanei intelligenti che “evitano ogni struttura complessa” (2). Provvisoria e intensamente manuale è la dimensione di questo artigianato neo-industriale. Il fascino di questa ricerca intensiva basata sul fare che ha spesso un andamento poco lineare e difficilmente programmatico è lo stesso che si può produrre in un laboratorio spaziale ad altissima tecnologia. È il concetto di lavorio continuo, di stato di perenne modificazione e perfettibilità condotto giorno per giorno che può produrre innovazione dove ogni micro-scarto in avanti può scaturire da una combinatoria casuale prodotta in uno stato di vaga incoscienza dovuta a questo iper-fare. Wernher von Braun, ingegnere tedesco padre della più estrema ricerca spaziale prima con i razzi V2 che sconvolsero Londra poi con la navicella Saturno V per la Nasa pensava alla ricerca negli stessi termini in cui vi pensa un artigiano definendola come qualcosa che “faccio quando non so cosa sto facendo”.

Manolo De Giorgi

Manolo De Giorgi, architetto, ha aperto il proprio studio a Milano nel 1989 occupandosi di ristrutturazioni, interni ed allestimenti. È stato redattore delle riviste Modo e Domus. Ha curato le mostre: Techniques Discrètes (1991), 45-63. Un Museo del Design in Italia (1995), Marco Zanuso (1999) Camera con vista. (2007), Olivetti. Una bella Società (2008) Magnificenza e Progetto (2009) e i relativi cataloghi. È autore di Carlo Mollino. Interni (Segesta, 2004), Design (Zanichelli, 2007), Enzo Mari (Il Sole/24 Ore, 2011). Dal 2010 collabora con la Fondazione Bassetti indagando il rapporto fra artigianato e design attraverso nuovi medium espressivi come lo spettacolo teatrale Mani grandi senza fine (Piccolo Teatro Milano, 2011) e il film Avanti Artigiani (2014).

Note

1. Luigi Pasinetti, Dinamica strutturale e sviluppo economico, Utet, Torino,1984, pp. 314-315 2. Andrea Branzi, Modernità debole e diffusa, Skira, Milano, 2006, pag. 53

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